ITra gli obiettivi imposti dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite figura il raggiungimento dell’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile. Questo traguardo, integrato nei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, si propone di eliminare ogni forma di discriminazione.
La finalità è quella di conferire alle donne uguaglianza di diritti e accesso alle risorse economiche, naturali e tecnologiche, come anche la piena partecipazione alle leadership e alle attività decisionali in contesti politici ed economici. In Italia, infatti, come nel resto del mondo, è ancora tanta la strada da percorrere: basti pensare che, in merito all’indice sull’uguaglianza di genere 2020 elaborato dall’EIGE – European Insitute for Gender Equality, il nostro Paese ha ottenuto un punteggio pari a 63,5 su 100. Un risultato inferiore alla media dell’UE di 4,4 punti.
A tal proposito, parità salariale e negli scatti di carriera, spazi vita-lavoro adeguati e giusti servizi volti a garantire spazio alla genitorialità sono solo alcuni dei punti da cui è partita la nuova prassi italiana in merito alla gender equality, ovvero la certificazione per la parità di genere secondo la UNI/Pdr 125:2022, introdotta a seguito della legge 5 novembre 2021 n.162 sulla parità salariale. La UNI/Pdr 125:2022 è una prassi che deriva anche dal tavolo di lavoro sulla certificazione di genere delle imprese, previsto dal Pnrr Missione 5. Il Pnrr, infatti, ha previsto a tal proposito lo stanziamento di 9.81 miliardi per lo sviluppo di politiche di inclusione sociale, tra cui appunto quella per la certificazione della parità di genere.
In questo piano sono quattro i soggetti maggiormente coinvolti: lo Stato, le aziende, i professionisti (che assumono anche un ruolo impattante a livello culturale) e gli enti di certificazione. Questi ultimi hanno il compito di garantire allo Stato che professionisti e aziende hanno effettivamente attuato prassi adeguate al fine di ottenere quel valore aggiunto, che è appunto la certificazione per la parità di genere. Da questa relazione a quattro fattori si sta oggi cercando di far partire una riflessione che, prendendo spunto dal mondo del lavoro, diventi universale.
Un ruolo decisivo
Ottenere il cosiddetto “bollino rosa” è un importante indicatore per le aziende che, promuovendo un nuovo cambiamento sociale, ottengono anche sgravi fiscali e agevolazioni. Interessante è il ruolo che ricoprono gli enti di certificazione, tra questi ICDQ, uno degli enti più attivi in Italia in merito alla parità di genere. La società opera nel settore delle certificazioni dal 2001 e rilascia certificati riconosciuti a livello nazionale e internazionale. Con un know-how specifico e avanzate competenze tecniche, ICDQ è anche una delle prime realtà nel sud Italia, dalla sede a Canosa di Puglia, ad essere stata accreditata in materia di certificazioni per la parità di genere. Questo percorso nasce, come evidenziato, dalla necessità di cambiare radicalmente il mondo del lavoro, auspicando così un’evoluzione generale politica e sociale.
È importante cambiare quello stigma culturale che definisce da sempre il mondo del lavoro su criteri prettamente maschili. In passato alcuni diritti che riguardavano le donne sono stati identificati come non necessari: non era necessario che la donna diventasse manager o, per farlo, avrebbe dovuto rinunciare a una parte della propria vita come quella familiare, costretta a integrarsi in un sistema che vedeva l’uomo al comando privo di una propria vita sociale o di responsabilità di cura.
Con l’introduzione della certificazione i legislatori hanno deciso di concretizzare con una norma le tematiche legate al lavoro femminile, insieme ai principi d’inclusione e di equità che devono oggi esserle garantiti dal mondo del lavoro. La soluzione è dunque quella avviata attraverso le certificazioni: “passare la palla” ai soggetti privati, alle società come alle aziende private e pubbliche per impegnarsi affinché avvenga un vero e proprio cambiamento culturale.
Questo cambiamento deve partire in primo luogo dai colleghi, dai manager e dai professionisti. Le giovani professioniste devono poter lavorare in un mondo che le aiuta a crescere, un ambiente lavorativo inclusivo che abbia a cuore il benessere delle proprie dipendenti. Sono convinta che promuovere una società più solidale nei confronti delle donne possa essere il presupposto per creare una società più giusta e in cui tutti possano percepire un concreto benessere.
A tal proposito, uno degli obiettivi che la certificazione di parità di genere controlla è proprio la promozione di una nuova cultura aziendale. Parità di genere sul posto di lavoro significa, infatti, eliminare qualsiasi tipo di linguaggio, azione e abitudine violenta – anche se latente – nei confronti delle donne. Molti atteggiamenti di discriminazione, infatti, derivano da una prolungata, ed errata, abitudine culturale. Questa è l’occasione per promuovere modalità di confronto attive sui posti di lavoro: comportamenti e uso del linguaggio che sono sempre sembrati ‘normali’ devono essere aboliti”, mette in luce la professionista. Ecco che anche alcuni atteggiamenti presi dalle aziende in fase di recruitment andrebbero aboliti: porre certe domande alle donne piuttosto che agli uomini, ad esempio, è già un atteggiamento discriminatorio. Il mondo del lavoro deve, infine, rispettare anche la genitorialità.
Dotare le aziende di un regolamento vincolate, che educhi i protagonisti di un luogo di lavoro a rispettare determinati principi e valori è importante al fine di predisporre argini netti. Un’azienda che si certifica offre oggi un valore inestimabile alla nostra società. Le imprese certificate sono un valore aggiunto, per questo andrebbero pubblicizzate e valorizzate tutte quelle realtà che prevedono governance capaci di screditare possibili atteggiamenti discriminatori. Promuovere la solidarietà nel mondo del lavoro, è una soluzione attua a evitare quei retaggi culturali che portano alla violenza di genere.
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